La tecnica della menzogna
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Dom, Mag

La tecnica della menzogna

Ciro Palumbo - La danza della menzogna

Il senso della vita
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La tecnica della menzogna che vi proponiamo oggi in lettura è un capitolo di un libro che uscirà in autunno prossimo. Un’anteprima per gentile concessione dell’autore stesso! Una primizia.

CIRO PALUMBO - La danza della menzogna
Ciro Palumbo - La danza della menzogna

 

Il titolo de libro in prossima uscita è "L'uomo: un accidente culturale" Mimesis ed. L’autore Luciano Arcella, ha viaggiato e vissuto a lungo, soprattutto in Africa e in Sud America. Per molti anni ha operato presso gli Istituti Italiani di Cultura; ha concluso la sua carriera di addetto culturale fuggendo da una Mogadiscio in guerra. È stato docente di Storia delle Religioni all'Università dell'Aquila e si occupa in particolare della cosiddetta cultura della decadenza in Germania (Spengler, Altheim, Jünger) e di religiosità afro-americana, coniugando la conoscenza acquisita dai libri con l'esperienza sul campo. Il suo interesse religioso nasce dal suo primo viaggio in Brasile, a vent'anni, da New York, e si basa sull'esigenza di comprendere quel mondo "esotico" e di viverlo non "da straniero". Numerosi sono i libri ed articoli da lui pubblicati.

Interessante l’analisi che viene tratta nel capitolo su: La menzogna della tecnica che inizia facendoci ricordare e ripercorrere l’incontro tra Nessuno, in realtà Ulisse, e Polifemo. Già riflettere sui loro nomi e le dinamiche del loro incontro apre ad una successione di stimolanti constatazioni e mette in luce come l’esistenza umana ci obbliga a mettere in campo una sfilza di macchinosi stratagemmi per poter andare avanti…

Se La tecnica della menzogna ci pone a riflettere sul nostro modo di agire e la nostra dimensione umana non da meno è il fenomeno del Kitsch che prende sempre più sopravvento. Lo troviamo che si diffonde sempre più rapidamente tanto da rendere ridicole in gran parte le nostre città e soprattutto quelle d’arte e noi stessi.

Il 30 maggio 1951 moriva nel Connecticut lo scrittore Hermann Broch. Nato a Vienna nel 1886 da una famiglia di ebrei benestanti, lavora dapprima nella fabbrica tessile di famiglia, coltivando privatamente i suoi interessi letterari. Conosce Musil, Rilke, Canetti e altri intellettuali del tempo. Nel 1927, venduta l’industria, decide di studiare matematica, filosofia e psicologia all’Università di Vienna. Nel 1938, in seguito all’annessione dell’Austria al Reich, viene arrestato e rinchiuso in un carcere nazista. Liberato grazie all’aiuto di un gruppo di amici, tra i quali figura anche Joyce, emigra dapprima in Gran Bretagna, poi negli Stati Uniti, dove ottiene la cittadinanza americana e la cattedra di tedesco all’università di Yale. Si converte al cattolicesimo e porta a termine La morte di Virgilio, per alcuni critici il suo capolavoro.

Nel suo libro Il Kitsch, dove si indaga sul rapporto tra etica ed estetica, viene messo in evidenza il manifestarsi del cattivo gusto e della decadenza dell’occidente. Dal risvolto di copertina, a scriverci lo stesso autore: "Permettetemi di cominciare con un avvertimento: non aspettatevi definizioni rigorose e nette. Filosofare è sempre un giocare di prestigio con le nuvole, e la filosofia estetica non sfugge a questa regola. Quindi, se di quando in quando affermerò che quella nuvola lassù sembra un cammello, siate cortesi come Polonio e datemi ragione. Non parlerò propriamente dell’arte, ma di un determinato comportamento nei confronti della vita. Il Kitsch non potrebbe infatti né sorgere né prosperare se non esistesse l’Uomo - del - Kitsch, l’amatore del Kitsch, colui che come produttore d’arte produce il Kitsch e come consumatore d’arte è disposto ad acquistarlo e perfino pagarlo assai bene. Presa in senso lato l’arte è sempre il ritratto dell’uomo del tempo, e se il Kitsch è menzogna (esso viene spesso, e a ragione, definito così), questa menzogna ricade su colui che ne ha bisogno, e cioè su chi si serve di questo specchio destinato ad imbellettare e falsificare le cose per riconoscersi nell’immagine contraffatta che gli rimanda e per assumersi ( con un piacere, entro certi limiti, sincero) la responsabilità delle proprie bugie. È questo il fatto di cui ci occuperemo".

Di Hermann Broch, come ulteriore spunto di riflessione vi riportiamo per esteso e per completo: L’arte alla fine di una cultura (conferenza scritta su invito della Radio viennese nel giugno 1933, ma non trasmessa. Inedito conservato alla Yale University library di New Haven. Traduzione di Roberta Malagodi) Mai nella storia il patrimonio spirituale ed artistico è stato reso accessibile alle masse popolari con la stessa intensità del giorno d’oggi. È toccato alla radio compiere il passo in avanti decisivo e di realizzare ciò che prima non era mai riuscito su scala così grande a nessuno dei precedenti tentativi di comunicazione diretta - le università popolari, i concerti, le conferenze, i professori itineranti. Ciò che prima era inconcepibile era diventato all’improvviso realtà. Non solo la città, ma anche il villaggio montano più remoto era direttamente collegato da un giorno all’altro con tutte le manifestazioni della cultura. Nella più isolata fattoria americana risuonano oggi le note di Beethoven, che prima giungevano solo all’orecchio di una piccola élite di privilegiati. Si potrebbe parlare addirittura di una diffusione esplosiva del patrimonio culturale. Che strano fenomeno tuttavia! Mai prima d’ora la cultura è stata tenuta tanto poco in considerazione. Mai prima d’ora il lavoro dell’artista e dell’uomo di cultura è apparso così superfluo, mai prima d’ora l’uomo dello spirito e il suo lavoro sono stati esclusi in modo così radicale dal corso degli eventi sociali e materiali del mondo. Senza dubbio anche ragioni materiali sono a questo riguardo determinanti, e la miseria dei pittori, la miseria dei musicisti, la miseria degli scrittori, di cui sentiamo ovunque parlare, sono solo il segno di una generale miseria. Un’epoca caratterizzata da una profonda miseria materiale e fisica non ha grande interesse per il teatro, per le mostre d’arte e per tutte quelle esigenze spirituali che prima erano al centro della vita culturale. Quando regna Marte tacciono le Muse. E sulla nave che affonda è più importante l’uomo che sa manovrare le scialuppe di salvataggio del pittore o del poeta, proprio come, durante un incendio, serve solamente chi sa adoperarsi per spegnere il fuoco.

Epoche segnate da grandi catastrofi fisiche e spirituali - e la catastrofe della cultura occidentale, arrivata a un punto critico da vent’anni a questa parte, è ben più di una catastrofe materiale - hanno criteri di valore molto diversi da quelli di periodi di felicità e di pace. E se oggi ciò che importa è organizzare lo spegnimento di un incendio, se mettiamo all’opera in questa squadra di soccorso il politico, il tecnico, il militare e l’economista, tali attività ci appariranno tutte più importanti di quelle dell’artista o del puro uomo di cultura. Ciò si spiega non da ultimo con il fatto che epoche di grandi catastrofi esigono grande disciplina, vogliono che l’individuo conti meno della comunità, che la volontà individuale si sottometta a quella collettiva. Che ciò accada nel segno dell’autorità statale o popolare, dell’economia pianificata o di altre limitazioni della libertà economica individuale è quasi indifferente rispetto alle dimensioni del fenomeno, che si estende a tutto il mondo civilizzato e mette in contrapposizione, nelle variazioni più diverse, i legami sovraindividuali e la libertà dell’individuo. Ma non c’è nulla di più radicalmente ostile a questa disciplina e a questa spersonalizzazione dell’attività culturale ed artistica. L’uomo produttivo in campo culturale e artistico è per sua natura tutto orientato verso il proprio io, la propria individualità ed autonomia, e per tutelare la propria produttività egli respingerà con vigore più di chiunque altro ogni influenza esterna e qualsiasi imposizione dettata da principi estranei alla sua natura. Senza dubbio è un destino tragico. Chi vede nella conoscenza spirituale -, chi riconosce in questa attitudine profondamente platonica il vero scopo della propria vita si rende conto all’improvviso che questa maniera ha perduto il contatto con i problemi urgenti dell’epoca. L’epoca è infatti così presa da questioni pratiche e queste sono divenute così grandi, che l’idea platonica, la quale in fin dei conti è la sola cosa che importa, perde vigore, diventando qualcosa di grigio e di insignificante. Già nel XIX secolo il termine "idealista" ha preso una sfumatura negativa, e sembra che la lontananza del mondo, l’eccentricità e l’assurdità che si volevamo esprimere con questo termine abbiano subito oggi un’accentuazione, cosicché esso viene associato alla mancanza di serietà e di senso sociale, in breve, all’immoralità. Se epoche segnate da catastrofi tollerano l’arte accanto alle occupazioni così dette serie, pretendono allora che faccia divertire, che getti un velo ingannevole sulla miseria e sugli orrori, che si svilisca prostituendosi come passatempo. A questa esigenza provvedono di fatto la musica commerciale ed il Kitsch su grande scala del film parlato.

Ma come si concilia tutto questo coi massicci tentativi che vengono fatti - con un’intensità del tutto inedita prima di oggi - proprio per coltivare il patrimonio culturale e spirituale, e per radicarlo nel popolo mediante una diffusione sempre più ampia, affinché si conservi per sempre? Si vorrebbe con ciò far dimenticare le miserie dell’epoca, anche se a un livello elevato? Ci vogliono tutti solo ingannare sul fatto che il progresso si è lasciato alle spalle quanto definiamo interessi spirituali? Vogliono forse solo tenerli stretti con tutta la forza e renderli di nuovo attuali in modo artificioso? Se le cose fossero così - e pressappoco stanno così - si tratta di un tentativo illegittimo. Per quanto infatti un uomo volga il suo sguardo al futuro, per quanto senta in modo rivoluzionario gli accadimenti del mondo, quali li abbiamo vissuti negli ultimi vent’anni, per quanto voglia sostituire il nuovo alla tradizione passata, vive in lui con uguale intensità - anche se a volte inconsciamente - l’impulso conservatore a salvare i valori passati e a portarli così nel futuro. E ciò non è solo perché nessuno può liberarsi della propria origine e della propria storia nazionale, ma anche dell’idea della conservazione non come movimento regressivo e reazionario, ma come componente partecipe e costruttiva è attivamente presente in ogni progresso umano e in ogni movimento rivoluzionario. Qualsiasi forma di progresso, e persino qualsiasi forma di rivoluzione, rifiuta ostilmente un passato oramai obsoleto, ma è comunque costretta a mettere in atto il rinnovamento prendendo le mossa dal passato. Se Rousseau considera il rinnovamento del felice passato delle origini come meta del progresso umano, ciò è solo l’espressione più drastica di quanto si potrebbe definire la fondamentale componente conservatrice del processo storico. Essa rappresenta un profondo istinto metafisico originario dell’uomo, che riesce sempre a manifestarsi e a imporsi, perché il futuro è imperscrutabile, e per quanto tutte le speranze del progresso vi tendano, nella sua oscurità si cela sempre la morte. Ciò che è passato è consolidato, ciò che è già stato raggiunto e ha ricevuto una forma definita sembra rappresentare, invece, la certezza e la garanzia del fatto che il nuovo è duraturo e raggiungibile. L’uomo non si libera mai dalla propria paura esistenziale, e la sua aspirazione a creare valori, che solo nella loro totalità costituiscono la cultura, si placa esclusivamente al cospetto dell’opera creata e della sua eternità.

L’idea, o l’ideale, per quanto sia disprezzata, riesce sempre a rientrare nella vita ed a imporsi. Guardiamoci un attimo intorno: il mondo, credo, non è mai stato così ricco di ideali, quasi ogni associazione bocciofila ha qualcosa da difendere che si chiama la sua idea, o addirittura i suoi nobili ideali. Ma sarebbe troppo meschino riderne. Bisogna invece osservare come anche il più piccolo fenomeno sia specchio di un fenomeno più importante e come anche il più piccolo desiderio di uno stile di vita ispirato a un’idea non sia troppo lontano dal desiderio di conoscenza e spiritualità, non sia troppo lontano dal bisogno di quei simboli dell’arte che dovrebbero rinchiudere in se stessi la conoscenza eterna. Non dimentichiamo che il mondo occidentale, il quale era dominato un tempo da un’unica idea platonica - l’idea del Medioevo cristiano - platonico -, deve portare a termine un infinito e doloroso processo per arrivare di nuovo ad un’idea unitaria. Non dimentichiamo che tutta la terribile miseria che è caduta sulle nostre spalle ha la sua ultima ragione metafisica in questa lotta per l’idea di una nuova unità, e che ogni tentativo di raggiungere l’idea - fosse anche solo un tentativo imperfetto e in un certo senso non platonico, perché il suo ideale è esclusivamente terreno -, che tutte queste idee non platoniche, la cui molteplicità e discordanza determinano la natura del mondo moderno, sono, a dispetto della loro imperfezione, segni del futuro, segni di un nuovo platonismo, proprio come l’aspirazione universale a legami collettivi, di cui abbiamo parlato, è segno di quella futura unione alla quale il mondo tende e che va al di là della politica poiché - celando in sé il ritorno all’attitudine religiosa - ha anche in se stessa l’eterna unità dell’umano.

E questa l’unica cosa che importa. Si tratta di recuperare la religiosità in tutta la sua coerenza ideale e in tutto il suo rigore, come fonte di coesione comunitaria. E poiché ogni vera conoscenza è specchio della verità in se’, specchio dell’idea platonica della verità eterna, e ogni vera opera d’arte è specchio dell’essere e del cosmo, e poiché c’è nell’uomo una profonda consapevolezza di questo rapporto, una consapevolezza indelebile nonostante le miserie e lo scetticismo di quest’epoca, è del tutto legittimo che l’uomo, nonostante ogni progresso, ritorni sempre a quei beni spirituali che è possibile definire, nel loro complesso, con il concetto goethiano di Bildung. È infatti Goethe che, ben lontano dal paganesimo che gli si è voluto attribuire, scrive, riconoscendo così la santità dello spirito: "L’idea è unica ed eterna; che noi siamo anche il plurale non è giusto. Tutto ciò che percepiamo e di cui possiamo parlare sono solo manifestazioni dell’idea […]". E in questa frase, il cui vigore, che possiamo ben definire religioso, e così grande che tutta l’opera di Goethe potrebbe essere interpretata in questo senso, non è contenuta solo la legittimazione a conservare e diffondere tutto il patrimonio culturale quale manifestazione dell’idea platonica; essa esprime anche la legittimazione morale dell’esistenza di chi si propone, nel senso indicato da Goethe, di porre la propria opera al servizio dello spirito e dell’idea. Essa contiene infatti l’imperativo di collaborare alla restaurazione dell’idea platonica, essa assegna allo spirito, all’arte, alla poesia il compito religioso di vedere in ogni conoscenza l’unità del tutto e di contribuire così con ogni conoscenza, con ogni opera, alla costruzione della futura nuova unità. L’unico compito dell’uomo spiritualmente produttivo è di avere sempre presente il fine religioso del rinnovamento platonico. Questo compito goethiano comporta un tale impegno e un tale vigore morale, una tale disciplina etica da assicurare allo spirito il ritorno in un mondo dalla cui problematica morale esso, a uno sguardo superficiale, sembra essere escluso. Ciò che è veramente morale, infatti, ottiene sempre ascolto e fallisce solo se perde di vista il fine che gli è proprio e cade con ciò nell’immoralità. Anche in questo caso è vera una massima goethiana: "Nel momento in cui smetto di essere morale, non ho più libertà".

Leggi: La menzogna della tecnica di Luciano Arcella

 

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L’Associazione si fonda su tre pilastri:

CULTURA - Intesa come coltivazione di sé.

TRADIZIONE - Come l'eredità spirituale dei nostri antenati.

RETTITUDINE - Come modo di essere e non di apparire.

Visita il Sito: Associazione Eumeswil

 

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